Oltre la tela
La ricerca di Silva Pellegrini parte dal colore steso sulla tela a larghe campiture, dall’informale vissuto sulla scia di Vedova, dalle sperimentazioni di rossi bianchi neri che hanno segnato gli anni dell’accademia in quel di Venezia. Risultati rilevanti sia nell’ambito della formazione e della sperimentazione, che in quello dei riconoscimenti, ma evidentemente, stando ai risultati più recenti, non doveva essere questo il punto di approdo della sua ricerca. Il campo della litografia, dei monotipi, è rimasto in parte un territorio dove Silva ancora esplora, gode del risultato sempre nuovo e inatteso, ma il suo vero percorso l’ha portata altrove, in una posizione in certo senso dialettica se non polemica rispetto al senso stesso del fare pittorico. Lo strumento principe nel corso di tale ricerca è stato un processo ripetuto di isolamento delle parti, di restringimento dell’angolo visivo che arrivasse alla messa a fuoco parziale rispetto all’immagine. L’operazione avviene, polemicamente appunto, su quadri sacri della tradizione come la Maya desnuda di Goya. Icona della femminilità sensuale, di un corpo “totale”, la figura viene sezionata, coperta drasticamente da uno stato nero opaco che risparmia qua un viso, là un piede, là un fianco. Il corpo è restituito allo sguardo del visitatore come insieme di parti da ricomporre: non brandelli, si badi bene, non frammenti casuali ma maschere perfettamente tonde: la perfezione geometrica dell’apertura chiamata ad un contrasto significativo con la logica delle membra, che chiamerebbe altre aperture, altre linee visuali. Di tale dialettica, che diventa gioco, l’occhio è chiamato a partecipare, a interrogarsi: del corpo intero, che si vorrebbe ricomposto per un naturale automatismo percettivo, restano medaglioni dislocati, suggestivi me inquietanti. Del corpo svenduto e abusato della quotidianità davvero qui ti porti via scampoli avulsi dal contesto. La stessa circolarità del foro, o di certe tele che accolgono la pittura o la fotografia di Silva, è polemica scelta rispetto alla tradizione del dipingere che chiede bordi, spigoli, angoli.
Il secondo spunto interessante, che si interseca con questo, è l’attenzione che Silva Pellegrini rivolge a se stessa, in quella fusione fra artista e soggetto d’arte che è una delle cifre salenti dell’arte d’avanguardia. I tagli tondi, retroilluminati, riguardano ora l’artista in persona che si propone in questo parzialità di percezione, ossessivamente. Qua un occhio, là un labbro, una mano, uno scorcio di pelle. Il gioco impietoso sull’arte diventa gioco su di sé: dell’io, come dell’arte, non si può dare visione piena ma al massimo suggestione, indizio, lacerto. L’operazione è perfetta, razionale quanto perfetto è un compasso, ma la realtà esce irriconoscibile perché alle geometrie della ragione rifiuta di adattarsi.
Come in un intersecarsi di suggestioni ed esperimenti siamo già entrati nell’ambito delle installazioni, ed questo infatti il veicolo che Silva ha scelto nella sua produzione più recente. L’opera d’arte smette di riposare sul muro, si presta ad un approccio più diretto dello spettatore facendosi oggetto concreto, integrandosi con gli spazi architettonici, invadendoli in qualche modo. Magari nella sobrietà di allestimenti zen.
La conquista di questa modalità artistica è andata di pari passi con altri due percorsi, evidentemente convergenti: la ricerca sul video e l’interesse per l’arte concettuale. Il video anche in questo caso non si propone come semplice realizzazione di cortometraggi originali ma come rivisitazione di quello sfondo continuo di scene filmiche cui la modernità ci ha abituato. Sequenze di film amati vengono trasformate, rese appena riconoscibili da effetti sapientemente sovrapposti, giocate a parlarci di altro, glissate attraverso movimenti di luci, di vapori, di acque. E proiettate poi all’interno delle installazioni, come a divenirne l’anima parlante: il movimento delle immagini dialoga con la stabilità degli oggetti, il divenire con l’immobilità. L’idea pare ancora quella forte che aveva segnato i fori illuminati di cui si diceva: l’idea di guardare dentro, di “inspicere”, quasi il senso delle cose si cogliesse dai dettagli, ormai, non più dall’intero, e andasse comunque ricercato, non ostentato con facilità: la stessa dinamica che porta, provocatoriamente, ad alcuni lavori in cui del corpo umano sono ritratti gli organi, le viscere, le radiografie.
Arte concettuale, infine, si diceva, e infatti i lavori di Silva parlano oggi di polarità antitetiche eppure intrinsecamente connesse, dell’eterna dialettica fra uomo e donna, fra calore e freddo, con originali e suggestive reinterpretazioni. I video montati dall’artista ci raccontano in un minuto storie frenetiche d’acqua e di fuoco. Storie e immagini incorporati dentro le installazioni, quasi chiamandoci a riconoscere nelle cose quotidiane (un tavolo, una colonna) e nella sequela infinita di immagini in movimento, spesso ossessivamente distorte e manipolate, una verità più profonda, quella antica e disarmante nella sua semplicità: la compresenza degli opposti, la loro tensione ineludibile, vitale, vera. Capace, lei sola, di unire le parti, di restituire un intero, di spiegare il mondo.
Paolo Venti
sabato 8 marzo 2008
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